Il Venezuela e il suo artigianato
Se penso al Venezuela la parola che mi viene in mente è: diversità. Diversità – e dunque ricchezza – di risorse, paesaggi, gruppi etnici. Territorio meticcio e multiculturale per eccellenza, il Venezuela ha saputo accogliere, mescolare e stratificare tradizioni con grande apertura e creatività: l’artigianato ne è una manifestazione.
In questo articolo
Venezuela, “terra di grazia”
Il Venezuela è uno stato settentrionale del Sud America che si estende dal mar dei Caraibi all’equatore. La forma è quella della repubblica federale, che raggruppa ventitré Estados riuniti in dieci macroregioni.
Straordinariamente ricco di biodiversità, il Venezuela è una delle maggiori riserve ecologiche al mondo. La sua geografia è molto variegata e comprende diversi habitat e attrazioni naturalistiche: le ultime propaggini della catena andina, con quote che superano i quattromila metri; la Cordillera della Costa, le cosiddette Ande Marittime; il lago salmastro di Maracaibo, comunicante con il mar di Caribe; le estese praterie pianeggianti de Los Llanos; i caratteristici tepuy, imponenti formazioni rocciose dalla cima piatta che svettano sulla savana; il Salto Ángel, la cascata più alta del mondo, quasi un chilometro in altezza; il grande delta dell’Orinoco, tra le zone più umide del Sud America e tra le foci più vaste della terra; la foresta amazzonica al confine con il Brasile; oltre 2800 km di coste ripartiti tra litorale continentale, arcipelaghi e isole. In un territorio grande quasi tre volte l’Italia convivono scenari selvaggi e spettacolari come giungle fitte, foreste pluviali, savane, deserti, laghi, paludi, cime innevate e spiagge tropicali.
Colombo toccò questa zona nella sua terza spedizione (1498). Affascinato di fronte allo «spessore di quella vegetazione colossale, a qualche cosa di immenso e potente», la definì “terra di grazia”, stupendosi di trovare acqua dolce e potabile in quel tratto di approdo che in realtà non era già più mare, ma la grande foce del río Orinoco. Più tardi invalse il nome Venezuela, che alcuni ritengono sia l’adattamento di un termine autoctono che significa “grande acqua” e altri invece fanno risalire al significato di “piccola Venezia”, per via delle palafitte degli indigeni sparse nelle lagune, simili a quelle della Serenissima.
Almeno fino all’inizio del Novecento, anche a causa delle difficoltà climatiche la popolazione è rimasta piuttosto contenuta e la densità abitativa molto bassa (2 ab./km2); poi, nel giro di un secolo, e complice lo sviluppo economico prevalentemente basato sul petrolio, si è passati dai 2 milioni di abitanti agli oltre 32 milioni attuali, prevalentemente distribuiti negli agglomerati urbani, a partire dalla capitale Caracas. Tuttavia nelle aree più remote e inaccessibili l’antropizzazione è rimasta scarsa e i popoli aborigeni hanno per lo più mantenuto i tratti culturali originari.
Il Venezuela è un paese diversificato e multietnico: la maggior parte delle persone è nata dall’incrocio di etnie indigene con bianchi di origine ispanica o in misura minore africani. Sono presenti anche molti discendenti di immigrati europei, soprattutto spagnoli, italiani e portoghesi che vi si sono trasferiti nel secolo scorso. Una piccola quota di abitanti – il 3%, stando all’ultimo censimento (2011) – è costituita da popoli indigeni non meticci, discendenti delle antiche comunità precolombiane. Questi ultimi vivono a stretto contatto con la natura, per lo più lungo il bacino del fiume Orinoco e nella foresta amazzonica al confine con il Brasile e la Colombia.
1Antoine-François-Félix Roselly de Lorgues, Cristoforo Colombo. Storia della sua vita e dei suoi viaggi, vol. II, 1857.
La tradizione artigianale in Venezuela
L’artigianato in Venezuela è un patrimonio immenso e molto articolato, le cui origini affondano nella notte dei tempi e hanno culle in vari luoghi. Ogni regione, comunità e talvolta persino villaggio ha una propria identità e tradizione creativa che si esprime in abilità, tecniche e manufatti particolari.
Le indagini archeologiche hanno dimostrato che in epoca precolombiana erano già diffusi vasellami, tessuti, cesti e utensili di singolare bellezza, usati con funzioni cerimoniali, ornamentali o utilitaristiche.
Ogni conquista e migrazione avvenuta nel Paese ha trasmesso valori culturali e morali che hanno influenzato gli oggetti, riplasmandone la forma e la funzione. Ogni manufatto rappresenta dunque un intreccio singolare di etnie, usanze e culture.
Quando si parla di artigianato indigeno e tradizionale si fa riferimento soprattutto agli antichi mestieri che ne costituiscono il mosaico, ovvero cesteria, tessitura, ceramica e falegnameria.
Lungi dal voler riuscire, non solo a esaurire, ma anche a presentare organicamente la materia, qui daremo conto delle sole arti e tradizioni venezuelane incluse nel catalogo Oriwaka, ovvero, al momento:
Le amache di Tintorero
Tintorero è un piccolo villaggio di circa 2000 abitanti situato nella valle di Quíbor, nello stato di Lara, nel Venezuela nordoccidentale. La sua economia si divide tra artigianato, agricoltura e allevamento di capre.
Parte del suo patrimonio culturale e artigianale è ancestrale, dato che già in tempi remoti questo territorio era abitato da aborigeni che furono abili ceramisti e intagliatori di legno, mestieri che ancora oggi sopravvivono; ma la principale attività economica per cui il villaggio di Tintorero è rinomato è la tessitura, soprattutto di amache, ma anche di coperte, centrotavola, tovaglie e stoffe per la tavola. Il suo stesso nome deriva dal fatto che la maggior parte degli abitanti sono tintori (tintoreros) e tessitori (tejedores).
La tradizione indigena della tessitura di Tintorero si intreccia a quella coloniale e poi vede un ulteriore rilancio tra Otto e Novecento. Ne ripercorriamo a grandi linee le tappe fino ad oggi e alle amache scelte da Oriwaka.
Le tappe e le scuole di tessitura a Tintorero
L’introduzione del telaio a licci e pedali, da El Tocuyo a Tintorero
Tra il 1546 e il 1549 Juan Pérez de Tolosa, governatore e capitano della provincia del Venezuela, colonia dell’impero spagnolo, fondò la prima industria di telaio e tessitura a El Tocuyo, allora capitale; fu così che molti abitanti dell’epoca diventarono esperti nell’uso del telaio a licci e pedali, importato dalla Spagna.
Tre secoli dopo, tra il 1890 e il 1895 il tessitore don Juan Evangelista Torrealba si trasferì da El Tocuyo a Tintorero, portando con sé il primo telaio e i segreti del mestiere. Qui istituì un laboratorio per insegnare la tessitura a tutti coloro che volevano imparare e proseguire la tradizione con modalità nuove.
L’uso del telaio incontrò l’entusiasmo della comunità, pronta a mescolare l’eredità degli antenati con le esigenze contemporanee e a dare alle proprie creazioni nuove funzioni e significati.
Così, in mezzo a capre e pecore, Torrealba inaugurò questo nuovo meraviglioso pezzo di storia e diede pane e lavoro ai paesani con il mestiere della tessitura al telaio. La sua bottega divenne la prima e più grande dell’intero villaggio.
Il laboratorio di Sixto Sarmiento
L’eredità di Torrealba arrivò nelle mani laboriose di Sixto Sarmiento, suo apprendista appena quindicenne, che imparò il mestiere al telaio e lo applicò alla creazione di oggetti d’uso quotidiano come amache e coperte.
Durante la giovinezza di don Sixto la tessitura era fatta ancora con la lana di pecora, lavorata dagli stessi abitanti di Tintorero. A partire dagli anni Quaranta del Novecento il filo artigianale prodotto dal tessitore stesso o dai filatori specializzati della zona fu soppiantato dal filo di lana industriale.
Negli anni Sessanta la fibra di lana lasciò definitivamente il posto al cotone, materia prima più facile da ottenere, che richiedeva meno lavoro e dava più varietà di colori. Questa svolta diede origine a quella ricchezza cromatica e di disegni oggi nota come “tessuto tradizionale di Tintorero”.
Don Sixto Sarmiento portò la tessitura di Tintorero a tale fermento e qualità che ne diffuse la fama ben al di fuori dei confini venezuelani. Tintorero divenne un’attrazione turistica con visitatori e acquirenti da tutto il mondo.
Sarmiento era un uomo creativo, in tutti i sensi, e fu molto prolifico: ebbe due matrimoni e diverse relazioni da cui nacquero 25 figli, che gli diedero 125 nipoti e 66 pronipoti. Era conosciuto come un uomo gentile, semplice e un po’ filosofo, oltre che musicista. In età avanzata lo si vedeva sempre con il suo inseparabile violino, che aveva imparato a suonare da autodidatta. Mentre le persone visitavano il suo laboratorio e ne ammiravano i tessuti, le accoglieva con una tazza di caffè e suonando loro una melodia. Nel 1940 creò i “violini Tintorero”, oggi considerati patrimonio culturale nazionale.
Sarmiento ricevette numerosi riconoscimenti e tributi, tra cui il premio di Merito al lavoro dal presidente Luis Herrera Campings nel 1983.
La situazione oggi e la scelta di Oriwaka
Tra gli artigiani tessitori di Tintorero spiccano dunque due famiglie: i discendenti di Juan Evangelista Torrealba e l’ampia progenie dei discendenti di Sixto Sarmiento.
Le amache Oriwaka sono tessute dalle abili e pazienti mani degli artigiani nel laboratorio di Laura Sarmiento, fiera nipote di don Sixto. Dal nonno, Laura ha ereditato tutta la capacità di tessere, la sensibilità nell’unire i colori e la voglia di preservare Tintorero come punto di riferimento per la tessitura artigianale.
Purtroppo oggi la situazione di Tintorero non è più quella di una volta. La crisi economica e politica del Paese negli ultimi vent’anni ha portato l’artigianato del villaggio quasi all’estinzione, il filato è di difficile reperibilità e i turisti sono molto diminuiti.
Nonostante questo, gli artigiani rifiutano di chiudere i loro laboratori e, pur con grande difficoltà, continuano a insegnare il mestiere ai propri figli e nipoti. Perché, come mi disse Laura Sarmiento una volta: «Questa è la nostra eredità, che ci scorre nel sangue».
L’intaglio del legno a Quíbor
Sempre nello stato di Lara, a una decina di chilometri da Tintorero e a una trentina dalla capitale Barquisimeto, di cui può essere considerata un satellite, si trova la città di Quíbor, con poco più di 70mila abitanti.
Pur basando la sua economia prevalente sull’agricoltura, è anche un fiorente centro artigianale, specializzato soprattutto in ceramica e falegnameria.
L’atelier Quígua dei fratelli Castaneda
A Quíbor ha sede l’atelier (in spagnolo taller) Quigua dei fratelli Argenis e José Castaneda, che è considerato una vera e propria bottega d’arte. Dal loro piccolo laboratorio di eccellenza essi producono mobili e oggetti d’arredo, che sono esposti in musei e gallerie di tutto il mondo.
I Castaneda scolpiscono, levigano, intagliano e intarsiano legni locali per produrre un ricco catalogo di oggetti decorativi e d’uso con finiture di grande pregio artistico.
Nel nostro shop puoi trovare le eleganti scatole porta bustine da tè decorate a intarsio.
La cesteria etnica indigena e i suoi usi
Riconosciuta per la sua bellezza, nonché per la particolarità e fantasia dei suoi disegni, la cesteria indigena venezuelana nasce in tempi molto lontani ed è erede di antiche memorie aborigene.
Studiando i reperti giunti fino a noi nonostante le difficoltà di conservazione (dovute soprattutto all’umidità), gli archeologi hanno rilevato per primi l’abilità delle comunità preispaniche in questo tipo di manufatti.
Di sicuro in Venezuela la cesteria precede la ceramica e tutti i lavori di corda e telaio. Possiamo senz’altro affermare che era una pratica comune tra le società preispaniche almeno fin dai primi secoli dell’era cristiana e si suppone che sia nata a scopo di sussistenza, come metodo di trasporto dei frutti della raccolta, della caccia e della pesca.
I cestini erano usati anche come stampi nella fabbricazione dei vasi di terracotta per la cottura del cibo: ciò è confermato dalle impronte rinvenute in cocci archeologici del basso Orinoco, molto simili a tecniche d’intreccio ancora oggi utilizzate da indigeni che abitano la Guayana e l’Amazzonia venezuelane.
L’ampio resoconto di cronisti e viaggiatori nel corso dei secoli descrive l’immensa varietà di usi, tecniche e materiali che caratterizzano la cesteria delle comunità indigene. Il presupposto era la grande abbondanza di specie vegetali e la capacità di lavorarle per ottenere la materia prima; una delle caratteristiche innate di ogni popolo aborigeno è infatti l’uso creativo delle risorse naturali, messe al servizio della vita quotidiana e rituale.
Sia la cesteria tradizionale che quella attuale dei gruppi indigeni venezuelani è l’espressione di una vita in simbiosi con la natura.
Accanto alla destrezza manuale, alla concentrazione e alla pazienza necessarie per attorcigliare, piegare, intrecciare e annodare migliaia di trame e orditi, serviva anche una profonda conoscenza del mondo vegetale, in tutte le sue parti: steli, cortecce, foglie radici, gemme, frutti, semi e resine. Fin dall’antichità questi popoli hanno sviluppato una profonda conoscenza botanica da cui nulla, nemmeno ciò che è nascosto sottoterra, era escluso. Essi erano esperti anche dell’uso di tinture vegetali, utilizzate fino alla recente introduzione dei coloranti industriali.
Per i popoli aborigeni fare cesteria significa conoscere:
- le piante e il loro ciclo di vita, per tagliarle in modo tale da garantirne la rigenerazione
- la preparazione delle fibre, che prevede il taglio degli steli nelle dimensioni, forme e consistenze adeguate
- l’essiccazione e tintura delle stesse
- le tecniche di intreccio vero e proprio.
Possiamo dire che la cesteria è il mestiere che meglio è sopravvissuto in Venezuela, dato che le sue forme e usi tradizionali perdurano ancora oggi nelle aree rurali e indigene.
Alcuni oggetti sono impiegati per lavorare gli alimenti ossia raccogliere, caricare, conservare, essiccare, macinare, mescolare, cuocere e servire il cibo; altri sono utensili da lavoro, tra cui trappole e gabbie per la caccia e la pesca. Nei climi caldi, con la stessa tecnica si intrecciano pareti, soffitti, pavimenti e porte, nonché oggetti decorativi o elementi di arredo come tende, tappeti e stuoie. Allo stesso modo vengono tessuti anche sandali, cappelli, cinture, borse e abiti.
Nel tempo gli artigiani indigeni hanno saputo sviluppare stili e forme più funzionali alle esigenze della vita contemporanea, senza nulla togliere alla meraviglia delle fogge originali.
La cesteria dei popoli dell’Amazzonia venezuelano
Il Venezuela comprende una parte della foresta pluviale dell’Amazzonia, situata a sud nello stato di Amazonas al confine con la Colombia e il Brasile, nella macroregione della Guayana.
È un’area molto selvaggia, scarsamente abitata e con pochissime strade: sono gli stessi fiumi a fare da canali di comunicazione. Oltre a essere una zona impenetrabile di per sé, ben poche località sono accessibili ai turisti, che altrimenti devono avere un permesso speciale – questo per ragioni di tutela ambientale e dei popoli nativi.
Qui risiedono diverse popolazioni indigene precolombiane tra cui gli Ye’kwana, i Piaroa e gli Yanomami, caratterizzati ciascuno da lingua, costumi e tradizioni proprie.
È un territorio di risorse minerarie (ferro, bauxite, oro, diamanti) e naturali (cacao, caucciù e legno) e per questo purtroppo soggetto a scorribande, razzie e soprusi di vario genere. La zona è tristemente nota perché preda dei cercatori d’oro che vi si introducono illegalmente (i cosiddetti garimpeiros) portando danni e violenza e introducendo malattie difficilmente curabili dagli sciamani locali (malaria, altre malattie infettive e recentemente anche il Covid), che decimano le comunità originarie minandone la sopravvivenza. Per questo esistono diverse associazioni di salvaguardia.
Ciascuno di questi popoli indigeni vanta abilità artigianali particolari, tra cui l’intreccio di ceste, realizzate sia a scopo rituale che a supporto delle attività quotidiane, per il carico, la raccolta e lo stoccaggio di cibo e altro. La varietà di cesti utilitaristici di questi popoli è immensa.
Le tecniche di intreccio dipendono dalle risorse ambientali disponibili, da cui vengono pazientemente ricavate le fibre; ma a parità di materiale ciascun gruppo ha una procedura propria e dunque una caratterizzazione etnica specifica. È il caso per esempio dei cesti in bejuco mamure intrecciato dagli Ye’kwana e Yanomami, così diversi tra loro pur utilizzando tecniche e materiali simili.
La cesteria Ye’kwana
Il popolo Ye’kwana è considerato tra i migliori tessitori del bacino dell’Orinoco e, tra tutti i gruppi indigeni caraibici, quello che meglio ha saputo conservare e innovare la propria produzione.
Nata per la sussistenza, la cesteria Ye’kwana è oggi in parte indirizzata alla creazione di manufatti artistici a scopo commerciale. Le tecniche di intreccio di questo popolo sono molto accurate e i disegni decorativi particolarmente raffinati e fantasiosi.
Per il popolo Ye’kwana l’intreccio delle ceste del corredo di famiglia è un compito maschile, mentre le donne sono addette alla raccolta e al trattamento delle fibre. Fanno eccezione le ceste “wüwa” e i cestini “setu”, di fattura femminile: le prime, profonde e dotate di cinghie, sono usate per trasportare legna da ardere e manioca sulla schiena; i secondi, più piccoli e dal collo stretto, servono a riporre cotone, pepe e altre derrate minute. Tra i cestini creati dagli uomini spiccano i “waja” o “guapa”, di forma piatta e circolare, caratterizzati da disegni geometrici e di figure mitologiche, dove vengono servite le torte casabe fatte con la farina di manioca.
Da una cinquantina d’anni le donne hanno iniziato a trasformare i loro tradizionali cestini da carico in pezzi artistici, molto apprezzati a livello nazionale e internazionale. Nelle decorazioni inizialmente imitavano i disegni concentrici dei “waja”, poi per renderli più attraenti hanno cominciato a mescolare altri disegni, colori e a incorporare nell’iconografia varie figure animali (armadillo, cuculo, anatra, cervo, pesce, cane e altri), dando vita anche a nuove forme e dimensioni.
Le fibre e le tecniche utilizzate per tessere i cesti Ye’kwana restano diverse tra uomini e donne. Nel solo bacino inferiore del fiume Caura, nella regione della Guayana, gli Ye’kwana utilizzano le foglie e le radici di almeno trenta specie della foresta umida, tra cui il miñato (Heteropsis flexuosa), il seje (Attalea bacaba), il mamure (Heteropsis spruceana), il cucurito (Attalea maripa) e il casupo o tirite (Ischnosiphon arouma). Il miñato viene utilizzato dalle donne, attorcigliando a spirale le fibre ricavate dalle radici aeree di questa pianta rampicante; mentre gli uomini usano la tirite e alcune specie di palme per fare i famosi “waja”.
Con ruoli differenziati per uomini e donne, la cesteria è un’attività quotidiana che viene compiuta mentre si accolgono gli ospiti, si conversa in famiglia o si dialoga con gli anziani della comunità.
Come per tutti i popoli indigeni, anche per il popolo Ye’kwana l’uso di ceste autoprodotte è stato determinante per la sopravvivenza, rendendo possibile conservare e trasportare facilmente alimenti quotidiani come la farina di manioca e il pane ‘casabe’ fatto con quella farina.
Le ceste vengono utilizzate per raccogliere, pressare, setacciare, conservare e servire gli alimenti; è per questo che alcuni tipi di ceste sono considerati dei veri e propri tributi sacri a ciò che rende possibile il cibo.
Alcune ceste Ye’kwana hanno funzione da carico, ovvero sono fatte per trasportare oggetti durante i loro tragitti o per raccogliere frutta, verdura o legna: sono le cosiddette ceste “wüwa”, che possono sostenere fino a sessanta chili. A queste si sono ispirate le donne artigiane per realizzarne una versione commerciale che incorpora elementi decorativi simbolici tipici. Anche le ceste “jöjö” vengono usate per raccogliere piccoli frutti e verdure nei loro orti.
La cesteria Piaroa
Il popolo Piaroa vive nel medio bacino dell’Orinoco e lungo i suoi affluenti di destra. Una parte, si stima circa 14mila persone, è stanziata nella foresta Amazzonica nel sud del Venezuela.
Noti agli antropologi come società egualitaria e pacifista, o per meglio dire anarchica, i Piaroa vivono tradizionalmente di caccia, pesca, raccolte selvatiche e piccole coltivazioni. Questo almeno fino alla metà del secolo scorso, quando sono entrati in contatto con una nuova ondata di evangelizzatori europei e ne hanno subìto in parte l’influsso, iniziando a scolarizzarsi, salarizzarsi e a intraprendere qualche scambio commerciale.
I Piaroa sono abili artigiani, dediti in particolare alla ceramica e alla cesteria; con la tecnica dell’intreccio creano oggetti utilitaristici di grande valore decorativo.
Per realizzare le proprie ceste utilizzano la fibra di tirite (Ischnosiphon arouma), una pianta erbacea che cresce nel sottobosco della foresta e viene trattata in modo simile al nostro vimini.
Le ceste, chiamate nella loro lingua “manares” e “mapires”, sono tutte a uso domestico e servono alla raccolta della farina di manioca o come vassoio per gli alimenti secchi. La loro creazione è opera di artigiani uomini, mentre alle donne spetta la lavorazione della fibra.
Nel tempo i Piaroa hanno ampliato il repertorio e le tecniche dei loro cesti tradizionali per creare oggetti di scambio commerciale. Tra questi per esempio il cesto “wapa”, una sorta di piatto-vassoio di forma circolare intrecciato con la tecnica del twill, che alterna strisce di fibra naturale e dipinta in modo da creare motivi geometrici di grande essenzialità ed eleganza. Sebbene non nasca come oggetto decorativo, oggi è considerato come tale.
Le cesteria Yanomami
Anche gli Yanomami vivono nell’Amazzonia venezuelana. È una delle più popolose tribù indigene del Sud America, circa 38mila persone che occupano un’area di foresta pluviale molto vasta, quasi 20 milioni di ettari ripartiti tra Brasile e Venezuela.
Gli Yanomami si sostentano con caccia, pesca, raccolta di cibo selvatico e coltivazione di orti domestici. Essi hanno una profonda conoscenza delle piante, che usano per nutrirsi, curarsi, costruire le proprie case-villaggio e altri utensili.
Essi intrecciano ceste e piatti da carico con fibre di bejuco mamure (Heteropsis spruceana). Una volta spellata e divisa in strisce sottili, la fibra viene intrecciata con una tecnica ancestrale molto resistente e fitta, caratteristica di questa etnia.
La principale cesta da carico Yanomami è la cesta “wii” o “guatura” generalmente intrecciata dalle donne per trasportare vari prodotti agricoli. La tessitura è irrobustita da ulteriori anelli interni di rinforzo, che danno ancora più stabilità.
Una volta intrecciata, la cesta è dipinta con un colorante vegetale ricavato dai semi di annatto (Bixa Orellana L., detta anche achiote o onoto), che conferisce un colore rossastro. Durante l’asciugatura viene poi decorata a carbone con disegni geometrici che hanno precisi significati simbolici: per esempio i cerchi rappresentano gli umani, le croci le impronte di giaguaro e le linee ondulate i serpenti. La forma a sezione circolare di questi manufatti è tipica e ricorre nella cultura Yanomami, che la adottano anche per le case-villaggio (lo yano o sciabono, a forma di anello) e i tagli di capelli.
Poi ci sono le ceste “wapa”, delle specie di grandi piatti per posizionare frutta, pesce, carne e altri cibi.
Con la stessa tecnica di intreccio gli Yanomami creano anche gli xohema, che sono dei soffiatori per ravvivare il fuoco, ventilare o allontanare gli insetti.
L’artigianato e la cesteria Warao
A differenza dei popoli indigeni che abbiamo menzionato sopra (Ye’kwana, Piaroa e Yanomami), che vivono nella foresta amazzonica e nelle savane degli estados di Amazonas e Bolívar nel sud e sud-est del Venezuela, il popolo Warao abita nel delta dell’Orinoco, che corrisponde allo stato del Delta Amacuro, che si trova nel nord-est.
In questo immenso labirinto di canali e paludi, i Warao (o Guarao) vivono per lo più di pesca, vegetali e frutta selvatica, risiedono in palafitte e si spostano in canoe che ricavano dai tronchi degli alberi. Il loro stesso nome significa: “gente di canoa”
I Warao sono abili artigiani specializzati nell’intaglio del legno, nella cesteria e nella tessitura. In origine il loro artigianato è a supporto delle attività quotidiane e comprende reti da pesca, ceste di raccolta e stoccaggio, indumenti, amache, tessuti di arredo.
La cesteria Warao tradizionale è caratterizzata dall’utilizzo della fibra di tirite (Ischnosiphon arouma) e dall’applicazione della tecnica “a saia” (o twill), ad armatura diagonale. La decorazione è fatta con l’uso alternato dei due lati della fibra, uno per la trama e l’altro per l’ordito, in modo da variare consistenza e colore e da produrre disegni geometrici di natura simbolica. Nelle ceste di tirite spiccano le belle e funzionali “mapires”: quelle a trama larga servono per il trasporto di frutta, verdura e oggetti personali, mentre le altre a trama fitta servono per conservare e trasportare la farina yuruma (estratta dalla palma di moriche, vedi sotto) o altri alimenti. A dispetto dell’origine utilitaristica, queste ceste sono così belle che sembrano opere d’arte.
In tempi più recenti i Warao hanno esteso il catalogo e le tecniche delle loro ceste per creare oggetti di scambio commerciale con cui integrare la propria economia.
Questi nuovi manufatti a forma di vasi, cilindri, anfore, panieri e sottopiatti sono realizzati non più in fibra di tirite, ma di moriche (Mauritia flexuosa, un tipo di palma molto flessibile da cui si ricavano steli simili al nostro vimini); questo stile di cesteria è chiamato “Warao moderno”.
Per lavorare la palma di moriche, gli uomini tagliano le fronde e le portano alle donne che prima sbucciano le fibre, poi le separano e suddividono in strisce sottili, dopodiché le bollono in acqua (e in certi casi nello stesso procedimento le tingono con una corteccia vegetale chiamata carapo, Carapa Guianensis). Le fibre vengono poi essiccate al sole finché sono pronte per essere filate, con un processo che prevede che due o tre estremità vengano attorcigliate a mano lungo la gamba. Con il filo prodotto si forma la matassa che verrà poi usata per la tessitura.
Con le foglie adulte di moriche i Warao intrecciano anche i tetti delle loro case, mentre con le radici creano bracciali e orecchini.
La fibra di moriche è utilizzata anche per la tessitura delle reti da pesca e dei chinchorros, che è il nome spagnolo con cui in Venezuela vengono chiamate le amache leggere, a maglie larghe (tipo rete da pesca), diverse dalle amache propriamente dette, che sono invece a maglia fitta (tipo coperta). Per il popolo Warao la tessitura delle amache svolge un ruolo fondamentale, dato che è l’arredo principale nelle palafitte; inoltre l’amaca è usata come letto portatile per i viaggi e per avvolgere i defunti nella sepoltura.
Per realizzare questi tessuti le donne artigiane usano strumenti molto semplici: un coltello, una scheggia affilata o due pali di legno affondati nel terreno a mo’ di telaio verticale, posti a una distanza che varia a seconda delle dimensioni dell’amaca. La tecnica di tessitura è l’intreccio a punto rete. Il processo artigianale è molto particolare e solo le donne Warao ne custodiscono la tradizione e i segreti; la lavorazione completa – che comprende estrazione, cottura, essiccazione, intreccio e tessitura – può richiedere da diverse settimane a tre mesi.
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